La Caritas a Roma, una finestra sul mondo

(30 Novembre 2021 di Andrea Zampetti;). Incontro con Marco Carsetti e Domenico Chirico.

La Caritas di Roma è un ufficio della diocesi di Roma, il cui mandato è l’azione promozionale e pedagogica sui territori, l’animazione territoriale per sviluppare, a partire dalle comunità, progetti di carità nella missione cristiana della cura dell’altro e dell’incontro di Dio nel povero.
Questa azione animativa-pedagogica deve fare in modo che ci sia uno sviluppo di comunità, un’animazione del territorio, perché ci deve essere una comunità a farsi carico del problema a partire dalle risorse che trova nella comunità stessa, mentre la Caritas dovrebbe evitare il più possibile di gestire le situazioni direttamente. Però nel suo mandato pedagogico ha introdotto fin da subito la dimensione dell’“opera-segno”: per mostrare che è possibile farlo intanto comincio a farlo io direttamente, per cui si praticano azioni dirette sul territorio di intervento e di servizio, per permettere al territorio di entrare e starci dentro a partire dalle parrocchie.
A Roma ci sono 336 parrocchie diffuse sul territorio, organizzate in 36 prefetture che sono degli ambiti che raccolgono un numero variabile di parrocchie a seconda dei territori e si ha una capillarità come presidi territoriali e una presenza nelle comunità incredibile. Ogni parrocchia ha nell’animazione alla carità uno dei mandati fondamentali, insieme a quello della catechesi e della preghiera; ogni parrocchia è diretta da un parroco che sceglie le priorità in base al mandato che ha. Prima del Covid avevamo 137 parrocchie più attive e oggi circa 200 che lavorano in rete secondo uno schema predefinito di ascolto e di intervento territoriale; tutti i dati che processano arrivano nel nostro sistema informativo centrale, per cui tutto quello che si trova nei rapporti della Caritas sulla povertà deriva da questa raccolta dati, siamo un osservatorio incredibile sulla città. Quello che stiamo cercando di fare è far convergere le schede di ascolto di tutta Italia in un unico gestionale.

Abbiamo il polso della situazione dei territori a partire da quello che le parrocchie vedono: sapete bene che in parrocchia non si presenta solo il cattolico, ma è il primo presidio a cui chi si trova in difficoltà si rivolge. Quando una persona arriva in parrocchia abbiamo delle procedure standardizzate, un modello di ascolto standardizzato, è tutto modellizzato e strutturato. Queste informazioni arrivano al nostro sistema centrale che comunica con il sistema nazionale e che a sua volta comunica con il sistema internazionale. Per cui quando una persona in condizioni di vulnerabilità si rivolge alla parrocchia della periferia di Milano queste informazioni possono arrivare al sistema centrale: chiaramente non i dati della persona ma la richiesta che ha fatto, il tipo di bisogno che aveva, il tipo di risorse che si sono attivate, come si è animato il territorio.

Con questa capacità organizzativa e con le risorse che siamo in grado di mobilitare tra i parrocchiani e i gruppi territoriali, paradossalmente il rischio è quello di dedicarsi troppo al fare, invece di uscire fuori dalla parrocchia alla ricerca di altri alleati per raggiungere gli obiettivi che ci poniamo, alleati che potrebbero essere interessati a mettersi in gioco rispetto all’azione che stiamo immaginando. Quindi quella funzione animativa-pedagogica collassa sul fare perché è in grado di mettere in campo risorse umane, spazi, soldi, cosa che non ci fa pensare di avere bisogno anche degli altri. Questo è un elemento di criticità interno molto importante e genera un rischio forte di autoreferenzialità; il lavoro che stiamo cercando di fare è ridurre queste criticità, dobbiamo passare al territorio il messaggio forte che la presa in carico delle vulnerabilità si fa insieme agli altri. Se arriva la signora somala con quattro figli che dorme in strada noi siamo in grado trovarle un posto per dormire, darle una mano per i documenti, trovarle un lavoro. Però così stai creando un sistema alternativo al servizio sociale pubblico, alla comunità civile, alternativo alla voglia di fare comunità di altri.

Poi è vero che intorno a quel nucleo familiare tu comunità la fai perché coinvolgi cento persone a prendersene cura, perché si mettono insieme le signore che preparano da mangiare, il direttore di una piccola azienda che si propone per darle un lavoro, i più giovani che danno una mano ai figli per la scuola, per cui si anima tutta una collettività, però è una collettività che appartiene alla nostra organizzazione. Si crea un percorso parallelo perché spesso mancano altri tipi di soluzioni, e allora anziché metterti le mani in tasca e dire “aspettiamo che arrivi qualcun altro”, metti sul tavolo la soluzione che hai. Invece nell’animazione di comunità si deve sapere anche aspettare affinché l’altro possa mettere in campo le sue risorse. In sintesi, il nostro rischio è quello di fare da soli. “Se vuoi fare presto cammina da solo, se vuoi andare lontano cammina insieme”. E noi dobbiamo andare lontano, perché il nostro mandato è la funzione animativa e pedagogica.

Mettersi in discussione
Per organizzare gli interventi, facciamo degli incontri centrali tra le prefetture della Diocesi, poi degli incontri territoriali della prefettura con le parrocchie e poi degli incontri all’interno delle singole parrocchie. È uno schema molto articolato di coordinamento. In questo ultimo periodo riusciamo ad avere più trasversalità grazie al progetto Alleanza per Roma, al fondo anticrisi. Abbiamo riattivato formazioni per tantissimi volontari nuovi che si sono presentati anche per via della pandemia, e formando i volontari abbiamo potuto trasversalmente incontrare tutti i livelli, per cui mensilmente si incontrano le prefetture, si incontrano i territori.
La Caritas è un’organizzazione che è capillare in tutto il mondo, ha strutture di coordinamento che collegano le esperienze diocesane di tutto il mondo, nazionali e internazionali, c’è la Caritas Europa, c’è la Caritas Italia, c’è una forte struttura organizzativa interna. Tuttavia, è capace di mettersi in discussione, di mettersi in gioco rispetto all’evoluzione dei tempi. E nonostante la Chiesa sia uno dei sistemi più conservativi sulla faccia della terra. Perché il mandato è la persona e non l’idea, il tuo prodotto non è il progetto ma la cura della persona e allora se la persona cambia tu devi cambiare. E ha la capacità di farlo a differenza di quanto si pensi.

La parte più difficile è riuscire a costruire questa sinergia nel territorio tra l’associazione, la parrocchia, la comunità dei volontari: questo è un lavoro su cui stiamo investendo molto.

Cerchiamo di costruire dei tessuti relazionali nei territori che possano far nascere dei progetti, abbiamo un progetto che si chiama “quartieri solidali”, che è un progetto di animazione territoriale per il supporto della persona anziana fragile che è pensato secondo processi animativi. Ovviamente, abbiamo attivato dei centri di ascolto territoriali, del programma Alleanza per Roma: ogni tre-quattro parrocchie c’è un punto di ascolto con persone più formate che riescono a gestire livelli di complessità più alti.
Quando si incontrano certe fragilità c’è bisogno di professionalità: il volontario offre un ottimo supporto nella prima fase di analisi della domanda ma la complessità non può ricadere sul volontario di cui dobbiamo preservare la possibilità di mettere a disposizione il suo tempo e le sue risorse oltre la sua quotidianità. Se invece questa persona viene schiacciata dalla complessità della storia dell’altro rischiamo di creare altra sofferenza. Per questo abbiamo formato dei gruppi che siano un po’ più professionalizzati rispetto ai volontari che possano rispondere alle vulnerabilità che sono emerse durante la pandemia. E che comunque fanno sempre riferimento ai nostri gruppi centrali che sono tutti professionisti, assistenti sociali, psicologi, educatori, e ai nostri centri di ascolto diocesani che a Roma sono due, uno specializzato sui migranti e l’altro sulle persone senza fissa dimora. Quindi hai dei professionisti a disposizione dei volontari senior in contatto con i gruppi di volontari sui territori.

La parte più difficile è riuscire a costruire questa sinergia nel territorio tra l’associazione, la parrocchia, la comunità dei volontari: questo è un lavoro su cui stiamo investendo molto. Più facile è quando non parti dalle parrocchie ma parti dalle opere segno, con cui gestiamo centri per migranti, pronta accoglienza per minori, case accoglienza per minori. Loro riescono a interagire di più con il territorio perché ce l’hanno nel loro mandato, anche perché gran parte di queste attività sono in convenzione con il comune di Roma, con la Regione. Quando abbiamo aperto per la prima volta dei centri per minori 25 anni fa era un modello innovativo, non c’era questa riflessione da parte delle istituzioni; adesso invece siamo partner dell’amministrazione pubblica.

Per esempio gestiamo una palazzina a via del Corso, Casa San Giacomo, dove ci sono diversi servizi tra cui cinque piccoli appartamenti per famiglie che hanno i bambini all’ospedale Bambin Gesù e hanno bisogno di stare a Roma perché magari stanno aspettando il trapianto del polmone o altri interventi. Ci sono poi altri appartamenti per casi più vulnerabili, non gestiti da operatori ma da una famiglia residente, delle consacrate residenti vivono lì la loro quotidianità e sono a servizio di quelle famiglie. Questo è un progetto di animazione, non è un progetto convenzionato. All’ultimo piano di Casa San Giacomo c’è il nostro programma di psicoterapia per le persone che hanno subito tortura, finanziato dalla Regione come progetto innovativo. Allora all’interno di questa struttura tu cominci a fare qualcosa di nuovo come una famiglia che si vuole prendere cura di altre famiglie e lo facciamo per delle famiglie che hanno delle vulnerabilità sanitarie e sociali; magari fra 10 anni questo diventerà un servizio convenzionato perché l’amministrazione pubblica comincerà a dire “lavoriamo sui cohousing, lavoriamo sulle comunità di famiglie per le famiglie”, come è successo per i centri pronta accoglienza per minori.

Una domanda che continuiamo a porci è cosa fare quando lo Stato ci raggiunge e lavora sui nuovi bisogni che avevamo segnalato. Ovvero l’Opera Segno fino a quando rimane Opera segno? Per quanto tempo devo continuare a trainare e tenere il presidio sul territorio o quando devo lasciarlo andare?

La Caritas e il lavoro sociale a Roma
Roma è una città con grandi diseguaglianze e differenze; in qualunque territorio tu ti muovi trovi degli affondi di povertà là dove non ti aspetti. Nel lavoro con i senza fissa dimora la nostra presenza è soprattutto nel primo municipio, è lì dove la Caritas deve stare e non può andarsene. Non lavori con i senza fissa dimora nelle periferie ma nel centro della città, nella parte della città più agiata, più ricca, che però è un territorio che si porta delle sofferenze molto profonde.

Una città con grandissime diseguaglianze, inafferrabile perché è in continuo mutamento, ed è anche la percezione che abbiamo a partire dalle parrocchie perché si modificano gli assetti economici e culturali continuamente con delle situazioni cronicizzate in cui è molto difficile intervenire, per cui ti rendi conto che su alcuni territori sei rimasto l’unico presidio. È impressionante il fatto che quando si gira per Roma ogni trecento/quattrocento metri c’è una chiesa, quindi hai molte persone che possono prendersi cura di chi ha bisogno; la Chiesa ha anche altri mandati ma quello della carità è tra i principali.

Il nostro sforzo è quello di lavorare sull’animazione; ci stiamo provando con tanti progetti ma anche aspettando che sia il territorio a rispondere, facendo sedere le persone intorno a un tavolo.
L’opera-segno nasce a partire dal territorio, dallo sguardo del territorio, dalle risorse del territorio; ha una sostenibilità diversa perché poi nel territorio deve sopravviverci, in modo che quella comunità si possa prendere cura delle vulnerabilità che percepisce più urgenti e di prossimità. Questo approccio è più faticoso, è molto nel nostro mandato ed è anche molto efficace; se anche il terzo settore operasse in questo modo, se lavorasse sullo sviluppo delle reti e sull’animazione dei territori, probabilmente nell’arco di qualche anno non avrebbe più significato di esistere, perché avremmo ricostruito quei villaggi, quelle comunità che si prendono cura degli aspetti educativi delle persone in crescita e delle vulnerabilità (come dice il proverbio africano “serve un intero villaggio per far crescere un bambino”).

A Roma non esistono posti dove non c’è nessuno che fa lavoro sociale. Anche dove sembra che non ci sia nessuno, in verità ci sono tantissime risorse. Penso adesso all’occupazione di “via Nerina” a Tor Sapienza, dove apparentemente non c’è nessuno e abbiamo cominciato ad andare, ma piano piano cominciando a camminare per il territorio ti accorgi che c’è qualcuno. La grande difficoltà di Roma è l’incapacità di mettersi insieme, la costruzione di un senso del Noi, questo è il problema di Roma. Le risorse ci sono. Riporto le parole di Don Bosco che diceva “in ogni persona c’è sempre un punto accessibile al bene, il tuo compito è trovare quel punto”, quella stonatura, quella crepa che ti permette di entrare, trovare il bene e trovare le risorse per agire. Ad esempio a Tor Sapienza ti chiama il parroco dicendoti “qui c’è questa situazione, cominciamo a capirci qualcosa”; tu cominci ad andare, ad agganciare contatti. Ma la parte più dura rimane questo senso del Noi perché il terzo settore a Roma è profondamente in competizione, deve cercare spazi dove innestarsi, fatica a capire che più siamo meglio è, se condividiamo la tavola con altre persone non avremo di meno ma anzi avremo più risorse a disposizione per fare qualcosa di diverso rispetto a quello che c’è. L’attivazione della comunità territoriale è la parte più faticosa, devi interagire col piccolo comitato di quartiere, col singolo cittadino, con chi la pensa diversamente da te e allora ti chiedi “chi me lo fa fare?” e invece bisogna farlo, stare e restare e continuare a farlo e respirare quell’aria per quanto sia faticosa da respirare.

A Ostia siamo presenti da tantissimi anni, ma stiamo faticando tantissimo, abbiamo chiuso il nostro ostello per persone senza fissa dimora. Qui c’è lo stesso problema che c’è nel primo municipio a Roma: un altro posto dove le persone senza fissa dimora, stazionano, vivono senza trovare soluzioni per motivi climatici, per motivi legati al turismo, c’è un bisogno fortissimo ed è un territorio invece molto sfilacciato, non riesce a tessere relazioni e su questo stiamo provando a lavorare con altri che sono presenti in quel territorio e confrontandoci, provando a lavorare assieme, a comunicare.
Anche luoghi come Tor Pignattara e Pigneto sono saturi d’organizzazioni, ma è difficile trovare qualcuno che lavora insieme.

In altri luoghi dove invece c’era l’assenza del terzo settore o delle istituzioni, trovi dei comitati di quartiere, degli organismi locali, che sono ben organizzati e lavorano bene, pensa a Corviale, dove sempre di più gli organismi che sono in quel territorio stanno lavorando assieme, stanno costruendo un senso del noi. Corviale, ha un elemento architettonico, urbanistico particolare che è stato aggregatore. Magari vi sono altre zone che non hanno questi elementi e sono più invisibili in qualche modo, ma anche perché sono estese.
E poi vai sulla Laurentina, fuori Roma, e trovi il comitato di quartiere, in una strada sperduta nel mondo, dove vi sono tre aziende agricole sociali, la cooperativa, come fosse un villaggio che si è ricostituito. Guardando tutte queste energie, io sono molto fiducioso.
Nella mia ultima esperienza alla “Città dei Ragazzi” alla Pisana, dove stavamo portando avanti un progetto, ci sembrava non ci fosse nulla, ma poi ti dici: “comincia a camminare, esci dalla tua stanza, mettiti in una dimensione di incontro con l’altro, lascia questo servizio, lascia la tua scrivania e vai a respirare il territorio e vedrai che quel territorio avrà delle risorse, non è possibile che non ci siano”. Se non ci sono, dev’essere un problema tuo che ancora non le stai trovando, se questo è il tuo mandato, a quel punto le troverai. Il problema poi è mettere a sistema le realtà, far comunicare le persone che è la parte più difficile.

Ad esempio, a Tiburtino Terzo abbiamo una struttura storica, che era una scuola di suore tantissimi anni fa. esso noi stiamo rilanciando a Tiburtino Terzo uno dei nostri centri a “via Venafro” dove abbiamo questa struttura storica che era una scuola di suore tantissimi anni fa. Lì abbiamo avuto per tanti anni un centro d’accoglienza per minori e una semi-autonomia per donne migranti e poi avevamo messo su un piccolo centro diurno, adesso abbiamo trasformato quel centro di pronta accoglienza in una casa-famiglia per radicare ancor più nel territorio le persone che ospitiamo. Stiamo provando a far diventare quel polo un presidio territoriale per quella comunità, a rilanciare un processo partecipativo di co-progettazione con quel territorio per dire “abbiamo questo bene, come possiamo metterlo a disposizione di questa comunità?”. A Tiburtino Terzo c’è la biblioteca comunale, delle scuole, ci sono dei circoli di partito molto presenti, ma non in comunicazione tra loro. Il compito che ci stiamo provando a prendere è quello di far sedere attorno al tavolo queste realtà, per la co-progettazione.

La difficile costruzione del Noi e l’invisibilità dell’educatore
Sappiamo che è molto difficile mettere assieme le organizzazioni territoriali. Il problema principale è il guardare il proprio orto. “Io ormai mi sono organizzato così, sono 40 anni che sono su questo territorio”. Penso al così detto parco di rifondazione al Tiburtino, c’è questo parchetto che si usa per le feste dell’unità, ma se quel gruppo di persone che sta lì dentro, ci porta i cani, ci mangia, come fa ad avere voglia di rimettersi in gioco? Si è talmente tanto abituata a seguire il proprio equilibrio rispetto a quella situazione che è difficile da scuotere. È la stessa difficoltà per la persona senza fissa dimora. Ti chiedi “perché se vive per strada, non va a dormire dentro l’ostello?” “Perché questa è la mia quotidianità, io mi sono organizzato così, questo è il mio equilibrio, adesso vieni tu a dirmi che non devo più dormire qua, che questa soglia di travertino davanti a questa banca, che è tutta la mia vita, che è la mia casa, che è il mio essere, dev’essere rotto, spezzato perché c’è qualcun altro che dice che devo vivere diversamente. E allora la parte più difficile è alimentare quell’utopia.

Tu come operatore sociale, come Caritas, come organizzazione, lo vedi, sei in grado di aprire quella quotidianità di disperazione alla speranza e sai qual è quella speranza e fiducia nel cambiamento perché ci credi, lo hai visto, lo conosci. L’altro non ne ha idea. Come succede per la persona senza fissa dimora, col minore a rischio, con la donna vittima di tratta, pensa a chiunque delle persone che ogni giorno noi incontriamo, quella persona ti dice “io sto bene così”. Questo succede col singolo, succede con la comunità, succede col territorio, succede con le organizzazioni. La nostra pazienza educativa, la nostra funzione pedagogica dev’essere quella di fermarci là, di sederci accanto e di dire “lo sai che c’è? Aspetto il tempo che servirà”.
Un altro elemento fondamentale del modello Caritas è una grandissima attenzione all’invisibilità, cioè noi ci sforziamo il più possibile di non essere brandizzati, riconoscibili. Tutta questa animazione noi la riusciamo a costruire e a consolidare senza che una persona dica “io l’ho fatto perché sono della Caritas”; l’ho fatto perché sono un cittadino, perché sono cristiano.

Per noi questo è un valore: un processo con funzione pedagogica funziona se l’educatore “muore”, come Mary Poppins che alla fine del film se ne va via, e il manico dell’ombrello, il pappagallo dice: “vedi che loro adesso sono felici e non si ricordano più di te, guarda c’è il papà, la mamma che giocano con l’aquilone e i bambini tutti contenti”. È proprio questo che deve succedere: io devo morire, devo essere invisibile, non devo essere riconosciuto. A quel punto io ho fatto la rivoluzione, ho contribuito a fare la rivoluzione culturale; la rivoluzione deve partire dal basso, da quella comunità che non deve più avere bisogno dell’animatore, del mediatore, del terzo che gli ha dato una mano a mettersi insieme.
Il nostro sforzo dev’essere quello di essere invisibili, di vivere questa dimensione di umiltà che poi è proprio la dimensione pedagogica: ci sono, ma ci sono in maniera discreta, in maniera gentile per accompagnarti nel percorso di cambiamento, per alimentare quell’utopia che dicevamo prima perché ho la visione, la fiducia e la speranza verso il futuro.

Ludopatie e altre dipendenze
Quello delle ludopatie è un tema a cui è necessario stare molto attenti. Il direttore della Caritas di Roma, don Benoni Ambarus, è attentissimo alla questione (così come a quella dell’usura), per i danni sociali che provoca in città a migliaia di persone. Su questi siamo presenti a diversi livelli: come studio e ricerca, come animazione nei territori e come azioni specifiche.
Le azioni specifiche le facciamo nelle parrocchie, nelle scuole, a cominciare anche dai ragazzini più piccoli, con percorsi informativi. Non è un percorso centrato sull’ansia e su modelli proibizionisti: tutti si sono resi conto che non hanno nessun significato, prima con le sostanze e adesso con nuovi tipi di dipendenza. È invece necessario costruire consapevolezza per promuovere la responsabilità nelle persone. Nelle parrocchie stiamo riprogettando interventi per lavorare con la popolazione adulta e anziana, anche se è un lavoro veramente complesso; siamo andati in contrasto con le slot, non prendiamo soldi da tutti quelli che sono collegati al gioco d’azzardo.

Non è così facile perché ti muovi in un campo particolare che è permesso dallo Stato ma poi genera dipendenza. Incontriamo tantissime persone, proprio nei nostri centri d’ascolto parrocchiali, con questo problema. Incontriamo famiglie distrutte, come quelle che negli anni Settanta e Ottanta erano distrutte dall’eroina che entrava nelle case. Peraltro di eroina oggi ce n’è ancora e c’è n’è tanta. Il consumo è lo stesso, viene un po’ sommerso e poi ritorna su. Anzi si è semplificato sempre di più, i costi si sono abbassati, si è unito ad altri consumi, si è abbassata l’età media, adesso è facile trovare ragazzi di 14 anni che fumano l’eroina. Tuttavia, su queste dipendenze non lavoriamo: la Caritas le vede nell’ambito della multi-problematicità della complessità della persona ma non è un focus specifico.
Nei nostri centri d’ascolto, l’ascolto è funzionale a cogliere la complessità della persona, la complessità che c’è dietro la richiesta della persona. La persona viene da noi per dire “ho fame”, “ho bisogno di un posto per dormire, ho freddo”; il centro d’ascolto esiste non per dare la risposta immediata ma per fare quello che si chiama in inglese assessment del percorso terapeutico-pedagogico, cioè aspettare e permetterti di narrare la tua storia per capire la complessità che c’è dietro quel sintomo che tu mi vieni a raccontare oggi. Noi abbiamo un poliambulatorio a Termini, viene una persona e ti dice “ho una ferita sulla gamba” e tu gli dici “siedi, cominciamo a ragionare, ti ascolto”; sicuramente ti curerò, perché ti offro anche quella soluzione mirata alla riduzione del danno, ma sono anche qui per ascoltare tutto il resto della complessità. Dietro all’emergenza abitativa c’è una storia, una complessità come c’è dietro ciascuno di noi, che va ascoltata. I centri d’ascolto sono nati per fare questo, a volte il nostro limite è che ci mettiamo a dar da mangiare, a dare un posto per dormire senza cogliere tutta quella bellezza e la complessità, quella sofferenza che c’è dietro quella prima richiesta che ascoltiamo.

Digitalizzazione, analfabetismo
In molti casi, soprattutto per gli anziani, la digitalizzazione della pubblica amministrazione genera isolamento, che poi si cronicizza. Diventa sempre più difficile poi alimentare quell’utopia della speranza di cui parlavamo prima. Più ti chiudi nella tua stanza, più diventa difficile. È il moderno analfabetismo. La nostra responsabilità e la nostra fortuna è quella di essere veramente e capillarmente in tutti i territori e avere molta facilità di interazione con questa fascia della popolazione, quella della persona anziana. Abbiamo un servizio di assistenza domiciliare, sempre in quella dimensione dell’uscire dai nostri servizi e andare dalle persone, per cui andiamo a casa delle persone anziane, persone spesso in condizioni di barbonismo domestico, ma anche giovani o adulti hikikomori; oppure ci sono interventi domiciliari leggeri per quelle situazioni che la parrocchia o il territorio ti segnalano perché ti rendi conto che ci sono delle fragilità per cui quella persona vive in condizioni di solitudine. e quindi entriamo proprio nelle case. La Chiesa di per sé ha come missione quella di entrare nelle case della gente. Quando una persona ti entra a casa, respira l’odore della tua casa, vede come hai organizzato la tua casa, si rende conto se stai bene, se stai male, sente i muri, le strilla, vive per quel momento la tua quotidianità domestica che spesso è invisibile perché la dimensione dell’appartamento, del mettersi separati rispetto al resto della comunità. Allora c’è questa persona che entra in quella casa, conosce quella storia e la può riportare in un presidio territoriale che è la parrocchia. Dunque, come Chiesa di Roma, hai la responsabilità di vedere quello che succede.

Vulnerabilità, occupazioni abitative, advocacy
Noi abbiamo da sempre una riflessione attiva sull’abitare e quindi trasversale su qualsiasi emergenza abitativa o bisogno abitativo o anche riguardo la qualità dell’abitare. Il nostro pensiero sulla vita, sulla casa è costante e noi come organizzazione siamo presenti vicino a tante occupazioni, tante vulnerabilità abitative. Ci interroghiamo sempre su questa questione dell’andare verso, sempre sull’andare laddove certe cose succedono. Che cosa possiamo fare e come possiamo metterci a servizio per creare queste comunità. Dunque non c’è nessuna fretta, nessuna pressione, nella totale serenità, capire dove, come, quando ragionare.

Insieme ad alcune comunità parrocchiali – al momento sono 38 – abbiamo attivato una forma di accoglienza diffusa: le parrocchie mettono a disposizione degli spazi, oppure veri e proprie appartamenti, in cui accogliere famiglie e persone senza dimora. Come Caritas diocesana li seguiamo con un tutoraggio. Una rete che, nel futuro, potrebbe diventare un sistema di “agenzia immobiliare sociale” per le famiglie che si trovano nella prima emergenza abitativa.

Poi c’è la dimensione dell’advocacy. È quella dimensione che ti porta a essere sempre con e sempre contro, lavorando all’interno delle regole delle istituzioni, lavoro in contrasto con le regole delle istituzioni per modificarle, perché possano cambiare e non costruire marginalità. La marginalità dipende dal fatto che c’è un dentro e c’è un fuori e se sto fuori dai giochi, allora devo capire perché ci sono finito e come la società contribuisce a quello. Abbiamo una grande responsabilità che deriva dal fatto che possiamo al contempo essere nei territori, su strada accanto alle persone, e nelle stanze dei decisori, perché se chiamiamo l’amministrazione pubblica a volte ci risponde, ci ascolta, si siede al tavolo e ragiona con noi. Poi se riesce a costruire il cambiamento non lo so. È una semina lunga, bisogna crederci, alimentare quell’utopia.

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