Roma imperiale, geografia immaginaria degli scrittori

Come si pensavano le province «da» Roma? E cos’era la capitale per chi vi giungeva da un piccolo centro? Un volume di studi a cura di Maria Luisa Delvigo

Straordinario articolo di Carlo Franco su IlManifesto.it, ne riportiamo alcuni stralci sul rapporto "centro/periferia".

L’ha mostrato Gladiator, oltre venti anni fa. Foreste fangose e fertili campagne, polverosi souk o città greche, piccole colonie periferiche o capitali risplendenti di ninfei e colonnati: erano i luoghi che componevano l’immagine di Roma, di un impero vario di paesaggi e di genti, di lingue e di dèi. In passato, un discorso nazionalistico fece credere che in quel mondo contasse solo il centro (quindi: una città, una lingua, un capo)...

Che cosa significava, stando a Roma, pensare le diverse province, più o meno culturalmente assimilate alla cultura romana, o greco-romana? E che cosa, invece, valeva la capitale per chi vi giungeva venendo da piccoli centri, spinto dall’ascesa sociale, dal mercato servile, o invece da una guerra? E che cosa suggeriva lo sguardo su Roma che partisse dal suburbio, o da un villa di campagna più o meno bucolicamente amena?

Da questioni simili muove un volume curato da Maria Luisa Delvigo, che raccoglie gli esiti di un incontro di studio (a distanza) del 2020 dedicato a Centro e periferia nella letteratura latina di Roma imperiale (Udine, Forum, pp. 508, € 28,00). Il tema è assai vasto e viene qui circoscritto, senza rigidità negli approcci: si mette a fuoco l’età imperiale, con particolare interesse per la documentazione letteraria. Sono esclusi quindi altri periodi, e anche gli sguardi «non-latini». Forse sarebbe stato utile, trattandosi di un impero (almeno) bilingue, dedicare uno spazio al mondo grecofono, da Strabone a Elio Aristide, e oltre: e anche Paolo di Tarso fece un viaggio dalla periferia al centro…

La conoscenza della periferia poteva dipendere da esperienza diretta, come è sicuro nel caso di militari e di mercanti. Nella cultura «alta» invece si trattava, molto più spesso, di una geografia «immaginaria», derivante cioè da libri e non da visione personale. Così nel caso importantissimo della Germania di Tacito, pervasa di modelli «coloniali», oscillanti tra idealizzazione e rifiuto, e però con tratti che nei secoli sono stati piegati a note esigenze razzistiche e politiche. Nell’Agricola di Tacito invece il caso della Britannia porta al concetto di «confine del mondo», a sua volta ambiguo tra politica, geografia e moralismo.

Né sempre appare una reciproca opposizione. Per esempio, il contrasto città/campagna nasceva dal moralismo, più che da passione campestre... Anche il ceto, infatti, entra nella dialettica centro/periferia: al pastore virgiliano Titiro la città di Roma sembra svettare sopra le altre «quanto i cipressi sopra flessuosi viburni», e la campagna del bucolico Calpurnio è in felice simbiosi, non in alternativa, con l’Urbe…

Opposta ed estrema esperienza della dialettica centro/periferia era certo l’esilio: evento così frequente tra i dotti, da generare una letteratura consolatoria di notevole interesse. Tra i numerosi casi, qui emerge quello emblematico di Ovidio. Da Tomi (l’odierna Costanza in Romania), il poeta tracciò in versi un ritratto nostalgico della Roma donde era stato allontanato, e un quadro studiatamente horridus della regione marginale ove era stato relegato. Ovidio lamenta, tra l’altro, l’inaridirsi della propria pratica in latino, alle prese con favelle barbare. Lo spirito «complesso e ambiguo» del poeta non lascia capire in quale misura tutto ciò fosse vero, ma richiama il fatto che del tema discusso fa parte anche il contatto (cercato o fuggito) tra lingue, portate a ibridarsi o a contrapporsi.

Oltre allo spazio geografico, c’è pure quello simbolico. Una iconica immagine che rappresenta la dialettica tra centro e periferia si riscontra nella descrizione virgiliana dello scudo di Enea, nel Libro ottavo dell’Eneide
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