Quei presidi di cultura autogestita

Dal teatro al cinema occupato, passando per l’asilo nido e la biblioteca autogestiti, fino ai centri sociali con decine di attività diverse. C’è un movimento che ricostruisce relazioni sociali e impregna, a livello territoriale, di nuovi significati la parola cultura che andrebbe preso molto sul serio, soprattutto in tempi di disorientamento e ricostruzione come quelli che viviamo. Un potenziale enorme, se si considera che in Italia sono almeno 110.000 gli immobili pubblici in abbandono, inutilizzati o gravemente sottoutilizzati. Il libro curato da Roberta Franceschinelli, Spazi del possibile (FrancoAngeli), racconta alcune di quelle esperienze emerse dal basso e intercettate dal programma Culturability. “Questo è un libro su ciò che è possibile in Italia fuori dalle istituzioni – scrive Antonella Agnoli – Su ciò che la società civile ha reso e rende possibile”.

Antonella Agnoli 09 Novembre 2021 (https://comune-info.net/)

Le foto di questo articolo sono tratte dalla pag. fb dell’Ex Asilo Filangieri, straordinario presidio culturale e sociale autogestito di Napoli

Raramente titolo di un libro fu più azzeccato di quello scelto per il volume curato da Roberta Franceschinelli, Spazi del possibile (FrancoAngeli 2021, € 26). Il tema affrontato sono i nuovi spazi della cultura ma io vorrei mettere l’accento sull’altra parola presente nel titolo: “possibile”.

Questo è un libro su ciò che è possibile in Italia fuori dalle istituzioni. Su ciò che la società civile ha reso e rende possibile. Sul fatto che in Italia c’è un’intera generazione fra i trenta e i quaranta anni che pensa sia possibile restare qui e costruire qualcosa di nuovo.

Costruiscono quelli che potremmo chiamare presìdi di cultura molto eterogenei: vanno dal teatro, al cinema occupato, passando per l’asilo nido e la biblioteca autogestiti, fino ai centri sociali con decine di attività diverse. È palesemente una realtà magmatica, ignorata o denigrata dai mass media, con un forte tasso di rinnovamento perché si regge essenzialmente sul volontariato ed è quindi strutturalmente fragile. Alcuni riescono a consolidarsi, anche grazie al rapporto con le istituzioni, altri (sorprendentemente pochi) muoiono dopo qualche anno.

Un contributo interessante è venuto in questi anni dal programma culturability, creato dalla fondazione Unipolis per sostenere centri culturali nati dal basso, luoghi che “rappresentano presìdi non solo di un nuovo modo di progettare, produrre e fruire cultura fuori dagli spazi tradizionali, ma anche di creazione di un welfare generativo, che dà risposte innovative a vecchi bisogni o fornisce soluzioni a quelli emergenti” (Franceschinelli, p. 13). Negli anni, culturability ha ricevuto 3.593 proposte e di queste ne ha assistite 84 con un percorso di formazione e 43 anche con un contributo economico.

Questi numeri ci dicono due cose: prima di tutto il programma tocca una parte infinitesimale di questi presìdi di cultura: poco più dell’1 per cento delle richieste ha ottenuto un finanziamento, il 2,3 per cento solo con il coinvolgimento di esperti del tema della sostenibilità. Secondo, che la presenza di questi spazi innovativi è enorme: se 3.500 hanno partecipato ai bandi ne esisteranno altri 35.000, probabilmente di più, che avrebbero potuto partecipare e non l’hanno fatto. Quindi si tratta di una realtà autonoma, un movimento che va preso sul serio, come del resto mostrano i numerosi esempi che il libro riporta attraverso vari contributi.

Sarebbe però limitativo, e anche un po’ ipocrita, ignorare qual è la base materiale di questi progetti che nascono dal basso: un mercato del lavoro che non offre riconoscimento e salari adeguati ai giovani. La cultura autogestita è il frutto dello sforzo di centinaia di migliaia di ventenni e trentenni che non trovano posti di lavoro adatti alla loro formazione, alle loro capacità, alle loro legittime ambizioni. La pubblica amministrazione italiana ha l’età media più alta del mondo e per decenni non ha assunto nessuno, lasciando decadere i servizi, in primis quelli culturali. Non solo: si continua a parlare dei “fannulloni” nel settore pubblico quando in realtà la percentuale di impiegati pubblici in rapporto alla popolazione è molto più bassa da noi che in Germania o in Francia.

Nonostante tutto, gli esempi di successo sono molti: il Mercato Lorenteggio e CasciNet a Milano, Kilowatt a Bologna, CasermArcheologica a Sansepolcro, Teatro Valle a Roma, l’Asilo a Napoli (il libro ne elenca una trentina). Potrebbero essere molti di più: un censimento forzatamente approssimativo calcola in 110.000 circa gli immobili di proprietà pubblica in abbandono, inutilizzati o gravemente sottoutilizzati. Ovviamente non tutti potrebbero essere recuperati, ma c’è lì un bacino potenziale che va studiato e utilizzato con un impegno congiunto dei cittadini e degli enti locali.

Il volume si occupa di centri culturali sparsi in modo capillare su tutto il territorio italiano, molti nel Sud che, come richiesto dai bandi culturability, dovevano contribuire a rigenerare un luogo, essere sostenibili e avere una funzione sociale. Obiettivi non sempre compatibili, ma il valore di queste esperienze sta proprio nell’essere riuscite a inserire questi spazi in un progetto culturale, realizzato grazie alla spinta creativa dei cittadini. Questi insediamenti sopperiscono alla mancanza di servizi culturali o di welfare e possono contribuire a rigenerare un territorio, creare nuove forme di convivenza e di civismo.

Nel volume, tra l’altro, si legge:

“Rigenerano e non riqualificano perché insistono sui contenuti e non sul contenitore, sul software e non sull’hardware, sulla cultura e non sulle mura, sulle attività offerte per dare nuova linfa non solo agli immobili, ma a intere collettività. Conciliano la memoria storica di questi siti con l’innovazione e la trasformazione che la rigenerazione necessariamente richiede: rispettano il passato, ma sono calati nel presente e guardano al futuro. Le vere risorse che hanno a disposizione non sono gli immobili, ma le aspirazioni di chi li abita e se ne prende cura, attivando un processo in cui spazi vuoti di significati vengono trasformati in luoghi densi di relazioni. Sono luoghi ibridi in cui la pratica culturale si combina con altri settori. Esprimono le evoluzioni in corso nei nostri stili di vita, intrecciando arte, socialità, convivialità, svago, lavoro, politica. Questi luoghi rappresentano presìdi non solo di un nuovo modo di progettare, produrre, distribuire e fruire cultura fuori dagli spazi tradizionali, ma anche di creazione di un welfare generativo. Spazi innesto da cui si attivano, talvolta anche in maniera inaspettata, processi di sviluppo e di empowerment territoriale più ampi”.

Ora molte di queste esperienze si sono messe in rete, creando Lo Stato dei Luoghi, un tentativo di creare un corpo intermedio che rappresenti valore e istanze di questi luoghi, in una logica di riconoscimento e di pressione verso gli stakeholders, i politici e le istituzioni. Le esperienze coraggiose che sono riuscite a farcela potrebbero aiutare/educare le amministrazioni locali ad affrontare i problemi con un atteggiamento non oppositivo. Non deve più accadere che molti giovani non riescano a partecipare a questo processo di costruzione dal basso per ostacoli, inerzie, lungaggini delle pubbliche amministrazioni.


Antonella Agnoli ha progettato e avviato la biblioteca San Giovanni di Pesaro (una delle più belle e accoglienti d’Italia), di cui è stata direttrice scientifica, e ha collaborato al restyling di numerosi progetti bibliotecari in Italia. Su questi temi ha pubblicato alcuni saggi, di cui Le piazze del sapere, edito da Laterza, è il più noto (leggi anche Leggere, discutere, fare cultura insieme) e molti articoli in volumi e riviste scientifiche. Già assessora alla Cultura, creatività, valorizzazione del patrimonio culturale del Comune di Lecce, è stata consulente di numerosi enti locali sui temi della cultura.

Da : https://comune-info.net/

Condividi l'articolo sui social

News di:

Dai Municipi:

Tags