La geografia sociale della capitale non dà nessuna speranza. Per chi nasce lontano dal centro il destino sembra già scritto.
Da: La Stampa
Una sera Alessia ha risposto al citofono, era un uomo che le gridava di consegnargli mille euro immediatamente o sarebbe salito con una spranga a picchiare lei e suo figlio. Alessia strillava, suo figlio ha preso un martello per difendersi e difendere la madre. Lei lo ha tenuto fermo, gli ha tolto il martello dalle mani e ha chiuso la porta a chiave.
L’uomo ha citofonato ancora: un giorno in più, le ha detto, ma un giorno solo. Poi è andato via e Alessia ha cominciato a fare le valigie, per l’ennesima volta. Sei mesi fa i suoi genitori l’hanno cacciata di casa. Viveva con loro, a Corviale, periferia sud occidentale di Roma, con i suoi tre figli Denise di 11 anni, Christian di 14 e il più grande Daniel, di 16. Alessia è una donna di 35 anni, non ha la macchina e non ha una casa, lavora in un supermercato del Trullo, 11 ore al giorno per 1300 al mese. È gastronoma e ne va fiera.
Quando sua madre e suo padre l’hanno cacciata di casa, lei ha portato i suoi figli a casa della sorella e ha cominciato a dormire sulle sedie del pronto soccorso all’Ospedale San Camillo di Roma. Alternative non ce n’erano. Alessia ha un lavoro, certo, ma non ha risparmi. Ha provato a contattare i numeri degli annunci privati per trovare una casa in affitto ma senza risparmi non poteva pagare la caparra e senza caparra nessuno le dava una casa. Così la mattina Alessia bussava alla porta di un’amica per farsi la doccia, poi andava al lavoro, e la sera uscita dal supermercato saliva su un autobus fino all’androne dell’ospedale. È andata avanti così per una settimana, finché un conoscente le ha detto: «Se te serve casa, t’aiuto io. Damme dumila euro e te trovo un posto dove dormì».
Il posto dove dormire era una galleria del serpentone, il palazzone di 1260 appartamenti, sei lotti, ognuno di nove piani, novecento metri di cemento pensati e realizzati a Corviale negli anni Settanta dall’architetto Mario Fiorentino, che voleva farne un esempio realizzato dell’utopia socialista.
Otto piani di case e uno, il quarto di ogni lotto, pensato per ospitare i luoghi di aggregazione e i servizi, progetto sfumato rapidamente, perché dall’inizio degli anni ottanta, tutti gli spazi comuni sono stati occupati da inquilini abusivi ma paganti: 150, 300 anche 500 euro al mese per un bagno comune, una stanzetta e un cucinino. È per avere un posto in galleria al quarto piano che Alessia doveva pagare duemila euro al racket delle occupazioni. Erano loro a cercarla quella sera, al citofono.
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