La città che sa curare

Se è vero, come dicono certe persone sagge, che la parte più vera di una città sono le storie di sofferenza e dolore che riesce a raccontare, gli androni e le sale d’attesa illuminati dalla luce fredda degli ospedali vanno certo sistemati sul podio della narrazione di eccellenza del nostro tempo. Anche in questo caso, come in molti altri, la pandemia non ha inventato ma portato all’estremo quel che era già. Quella miriade di storie, però, può acquisire una valenza e uno spessore culturale ben diversi se va a comporre un racconto sociale capace di pensare la salute non come condizione individuale ma come bene comune. È soprattutto lì, in quell’impervio salto in lungo, che si può incontrare un lavoro originale, colto e assai documentato come quello che propongono le “passeggiate nei luoghi della sanità a Roma” raccolte da Irene Ranaldi in “Memoria e futuro della salute in città”. Un libro piacevole e prezioso perché appassionante come la ricerca storica che lo segna e perché utile in quanto rivela una chiave di lettura della città sorprendente quanto efficace. Dal racconto delle scelte urbanistiche per la collocazione dei grandi ospedali alle disuguaglianze che inchiodano le responsabilità politiche di molti decenni, come sottolinea Marta Bonafoni nella brillante prefazione che potete leggere qui grazie alla cortesia dell’editore. È forse proprio l’invito di Marta: decostruire un’idea di società dove la fragilità è vissuta come colpa e vergogna, anziché come leva di solidarietà e cooperazione, che può aiutarci più d’ogni altra cosa a spalancare le finestre a un futuro possibile in cui le sale d’attesa e gli androni di ogni luogo della cura e della salute possano finalmente godere dell’aria e della luce di una città molto diversa

Vista frontale del nuovo edificio dell’ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma. Il primo edificio adibito a ricovero nella zona risale al 797, poi nel 1198 sorse un ospedale vero e proprio. Il palazzo che oggi costituisce il nucleo del moderno ospedale fu costruito alla fine del XVI secolo, e fu ristrutturato nel 1927. foto wikipedia

La scrittrice indiana Arundhaty Roy riflettendo intorno alla pandemia che ha investito pesantemente anche il suo Paese ha scritto: “Il virus è un gateway, una porta, tra un mondo e il prossimo. Possiamo oltrepassarla portandoci addosso le carcasse di prima, oppure possiamo camminare con leggerezza, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo”.

Tra le carcasse da non trasportare dall’altra parte della pandemia Roy cita anche “i cieli affumicati”, le metropoli inquinate che hanno permesso al virus prima di attecchire, quindi di propagarsi col suo carico di morte.

Non c’è dubbio che fra Covid19 e le città – anzi “la città” – vi sia un legame strettissimo, visibile sin dai primi giorni del lockdown.

Anche a Roma.

Memoria e futuro della salute in città, Tab edizioni, 2021

Ha ragione Irene Ranaldi quando in questo prezioso libro ci riporta con le lancette della memoria all’appuntamento delle 18.00 con la sala stampa della Protezione Civile: un luogo altrimenti anonimo diventato la piazza, impaurita e globale, dove ascoltare il bollettino dei malati, dei ricoverati, delle vittime. Il segno tangibile di un dramma collettivo, con intorno la città spettrale: il silenzio del giorno spezzato solo dal suono delle ambulanze, la notte – silenziosa quanto il giorno – animata solo dalle luci blu dei mezzi che venivano a prendere il nostro vicino, la signora del pianerottolo accanto, il nonno del migliore amico di nostro figlio. I suoni e i colori dell’emergenza diventati tutto d’un tratto la cornice della nostra quotidianità.

In quei giorni abbiamo imparato a conoscere da vicino e per immagini i nostri ospedali: gli hub Covid, gli spoke, le tute protettive, i respiratori. Le mascherine da accessorio utile a una manciata di professionisti sono diventate l’oggetto necessario per ciascuna e ciascuno di noi.

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