Jaque, laurea in ingegneria. In strada senza lavoro

Da Redattoresociale
Un viaggio nella città nella città. La Roma invisibile dei senza dimora. Lo ha fatto Gabriele Del Grande, a Roma, tra il 15 dicembre 2004 e il 3 gennaio 2005. Qui ci racconta la storia di un ragazzo congolese incontrato in una mensa per poveri all'Aventino

ROMA - Oggi non ho fatto colazione e a mezzogiorno la fame inizia a farsi sentire. Mi presento alla mensa della parrocchia di S.Alessio, sull'Aventino. Qui incontro Jaque, congolese, di Kinshasa, si fa chiamare Giacomo, vive in Italia dal 1984. All'epoca vinse una borsa di studio a Perugia, poi si iscrisse alla Sapienza e si laureò in ingegneria. Da due anni ha perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno. Da allora vive nella clandestinità, tra Roma e Torino, sua città adottiva, negli anni in cui lavorava alla Fiat come metalmeccanico. Oggi la voglia di ricominciare e l'impossibilità di aggirare gli ostacoli burocratici del suo status di clandestino. Ci ritroviamo presto a parlare di politica, migrazioni e della stazione Ostiense, sotto i cui portici da mesi va a dormire ogni notte. Insieme poi scendiamo lì vicino dalle monache carmelitane, che alle due offrono un piatto di pasta, del brodo e un panino a chi bussa alla porta. C'è una ressa di persone. Donne e uomini, ammucchiati sotto a quel portone verde, si spingono l'uno sull'altro. C'è chi ha paura di rimanere senza, c'è chi vuole soltanto fare il giro due volte. Giacomo scuote la testa, mi dice di aspettare che tanto ce n'è per tutti. Gli racconto delle scene simili che ho visto stamattina davanti al centro di viale Castrense, a San Giovanni. Uomini e donne si contendevano avidamente dei vestiti lasciati per terra dopo il mercatino. E lo stesso ieri quando facevo la fila per la cena dalle suore di via del Sant'Uffizio, in Vaticano. Seduto all'uscita del sottopassaggio c'era un uomo vestito di stracci marroni, arrotolato su se stesso come una rana. Dormiva. D'un tratto tre passanti, due signore bionde sulla cinquantina e un uomo castano della stessa età, forse polacchi, si sono messi a correre verso quell'uomo per poi piegarsi a terra a raccattare dal lastricato le poche monete elemosinate dal poveretto, che intanto continuava a dormire. "Nella miseria - mi dice Giacomo sospirando - per molti la logica equivale alla necessità. Visto che non ce n'è per tutti, chi si fa meno scrupoli ha la meglio, un po' come nella vita normale". Sorrido, lo saluto e ritorno a viale Castrense, dove dopo alcune ore di attesa trascorse insieme a ragazzi polacchi, rumeni e signore russe di mezza età, riesco a fare la doccia.

In vino veritas

La sera torno a Termini, mangio dei panini che i volontari hanno portato in stazione, poi faccio un giro nel sottopassaggio. Siedo. Conosco Laurenzio, un ragazzo rumeno sulla trentina. É ubriaco, vuole insegnarmi il rumeno. Chefach? Bine! Da lì si inizia a parlare con lui e altri suoi amici, dei rumeni in Italia e di Bucarest. Laurenzio è senza permesso di soggiorno. Tre settimane che lavora, in nero, fa il manovale. Il suo padrone l'ha cacciato ieri dal cantiere senza pagarlo, e la polizia ha sigillato le porte della casa abbandonata che aveva occupato con altri quattro ragazzi rumeni. Adesso dorme per strada, e già frequenta cattive compagnie dai facili guadagni, la famiglia a casa non sa niente. D'improvviso un certo baccano nell'atrio della stazione attira la nostra attenzione. C'è un ragazzo africano basso, magrolino, con indosso vestiti di qualche taglia più grande. Sembra rimbalzare sulle gambe, flaccide, come di gomma. Cammina avanti e indietro, si guarda intorno e grida a gran voce: "Italiano di merda! Vaffanculo!". Sputa, si asciuga con la manica del giacchetto verde oliva la bocca. Barcolla. "Vaffanculo! Capito! Italiano di merda, vaffanculo! Italiano emigrante! Ha dimenticato il passato? 'Fanculo!". Sputa di nuovo. Spettacolo poco edificante, dopo un paio di minuti arrivano tre agenti della Polfer e senza tanti complimenti lo accompagnano fuori di forza, trascinandolo per le due braccia a peso morto. Arrivati sul piazzale dei bus lo mollano a terra. Piegato su se stesso continua a sbraitare. Curioso e un po' preoccupato per le sue condizioni mi avvicino per vedere come sta. Gli allungo una mano per rialzarsi e. ricomincia da capo a recitare la sua parte. In vino veritas. Ce l'ha con gli italiani che, a suo dire, hanno dimenticato il loro passato recente da emigranti e se la prendono oggi con gli stranieri immigrati in Italia. Mentre parla cammina in circoli deformi, ma più che passi le sue sono elastiche mosse per mantenersi in piedi. "La guerra in Iraq. Italiano vaffanculo. Per entrare in Italia se no ce l'hai i documento e tutti cose no puoi mai venire, no è possibile proprio, e se ce la fai hai una vita che no è vita. Però gli italiani per entrare nel Iraq no hanno portato documenti, no hanno chiesto permesso di soggiorno. Stronzo! Italiano di merda vaffanculo! Vaffanculo!" Sento un tonfo. Mi giro è caduto sulle gambe che non lo reggono in piedi, continua a sputare e a asciugarsi la bocca, continua a imprecare, vomita rabbia. Poi trascinandosi sparisce dietro l'incrocio.

Un canto d'amore e lotta

Vado a dormire. Cammino lungo via Marsala, sotto i lampioni accesi, attento a scansare le pozzanghere, a pochi metri corrono le auto. Mi fermo davanti l'ingresso delle Poste Italiane. Qui dormono venti, trenta persone ogni sera. Il posto è ottimo per riposare le ossa. Sul pavimento c'è una griglia di ferro, che è meno fredda ed umida di un pavimento di cemento. Sopra la testa una larga tettoia grigia protegge da guazza, pioggerella e acquazzoni. Una scalinata bianca sporca di mozziconi e cartoni stracciati dall'acqua che piove scende giù verso la strada, illuminata tutta la notte dalle lampade arancione dei lampioni. Il traffico non conosce riposo nemmeno nelle ore più tarde. Il posto è conosciuto dai volontari che, organizzati in diverse associazioni, ogni sera passano a portare panini, bevande e biscotti. A dormirci sono tutti uomini. C'è un gruppetto di maghrebini, una decina di africani, Africa occidentale, e altrettanti polacchi. Il posto sembra da subito tranquillo, così, raccolti i cartoni vado a sistemarmi in una striscia rimasta libera nel mezzo di questo tappeto di uomini. Inizio a parlare con due ragazzi arabi, Sarkawi del Marocco e Sami della Libia. All'avventura. Bulli, scaltri, ma in fondo docili dopo poche parole. Poco dopo si unisce il gruppo degli africani, liberiani e ivoriani. Tutti clandestini, reduci di ormai lontani sbarchi a Lampedusa. Anche loro parlano arabo, hanno tutti vissuto in Libia per un certo periodo. La Libia infatti è una tappa forzata per chi lascia l'Africa nera via terra, dopo la lunga traversata del deserto. E in Libia spesso lavorano anni per guadagnare i soldi necessari a pagare i viaggi della speranza su vecchie navi dirette in Sicilia. Per adesso l'esito di quei viaggi è un fallimento: la strada, la miseria e l'insicurezza si aggiungono al peso della lontananza da casa. Verso le ventidue arrivano, puntuali ed attesi, i ragazzi e le ragazze della Comunità di Sant'Egidio, portano cibo, bibite e un po' d'allegria. Con loro l'atmosfera si contamina di positività. Siamo un pugno di sconosciuti che ha voglia per una sera di scaricarsi la pancia dai malumori, di convertire rabbia, solitudine e noia, in leggerezza e stupidità. Avere ospiti, ricevere doni e sorrisi, per quanto fuggevoli, genera un clima di festa. Un ragazzo liberiano, bevuto come una spugna, scalzo e con indosso una sola camicia, rossa, e un berretto verde a quadretti, si mette a cantare e ballare, lungo le scale che dalle Poste danno sulla strada. Canta nella sua lingua, canzoni d'amore, canzoni di lotta. La nostalgia corre in un brivido lungo la pelle degli altri che presto si alzano e si uniscono a lui, gli occhi gonfi di gioia. Uno spettacolo improvvisato di danze tradizionali, reggae e hip hop, al ritmo di un battito di mani, sotto la pioggerella di questa notte grigia di nuvole. Cantano la propria dignità, la gridano ai passanti, ubriachi. Poi si infilano giacca e scarponi e partono alla conquista di questa notte nelle vie della città correndo a ritmo di musica. Al mattino, quando apro gli occhi, li vedo pesanti sul loro cartone dormire.

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