Dietro la parola “migrante”

La forza di chi decide di migrare è ineguagliabile. Immagino l’ultima sera, il giorno prima di una decisione così grande: partire, iniziare il lungo e tortuoso viaggio consapevoli di tutte le insidie; consapevoli che dopo il vero viaggio, nel paese di destinazione ne inizierà un altro, forse anche più difficile, dell’accettazione, l’inclusione, l’eterna attesa delle richieste d’asilo, attese che durano anche anni al termine delle quali spesso la risposta è negativa. Un reportage dalla jungle di di Selene Lovecchio, il terzo (su Melting Pot – da cui lo abbiamo tratto – trovate anche i primi due: qui e qui) di un racconto che raccoglie le testimonianze di persone che cercano di raggiungere l’Inghilterra e delle organizzazioni solidali che resistono insieme a loro.

Di Selene Lovecchio31 Luglio 2021

onsegnare la parola ai e alle migranti senza necessariamente dipingerle attraverso il nostro occhio è la migliore modalità per conoscere realmente queste persone e la loro storia. Spesso quest’argomento è ridotto alle narrazioni tossiche o benintenzionate dei media, ricoperte di una patina non totalmente soddisfacente o confacente la realtà. Consegnare loro la parola permette di catturare un racconto diverso e più complesso. Ad un’analisi leggermente più approfondita si nota come la narrazione mediatica non concede quasi mai la parola direttamente ai rifugiati e migranti, su questo il Settimo Rapporto dell’Associazione Carta di Roma compie un’analisi sulle “voci dell’immigrazione” stabilendo quante volte sono i migranti stessi a parlare della loro condizione e quali diverse modalità di “intervista” è possibile riscontrare nei media italiani. Oltre a questo, si può sviscerare più a fondo il perché dello spostamento, cosa le persone sperimentano prima, durante e dopo lo spostamento, le disuguaglianze globali, i fattori chiave del perché i rifugiati si trovano dove sono, quali i motivi scatenanti (spesso non conseguenza di una scelta), le dinamiche della comunità ospitante e il rapporto con la stessa, i loro bisogni o le loro aspirazioni.

La forza di chi decide di migrare è ineguagliabile. Immagino l’ultima sera, il giorno prima di una decisione così grande: partire, iniziare il lungo e tortuoso viaggio consapevoli di tutte le insidie; consapevoli che dopo il vero viaggio, nel paese di destinazione ne inizierà un altro, forse anche più difficile, dell’accettazione, l’inclusione, l’eterna attesa delle richieste d’asilo, attese che durano anche anni al termine delle quali spesso la risposta è negativa.

Un antropologo di nome Sharham Khorsavi conia diversi termini per spiegare l’emarginazione, il rifiuto e il timore del migrante, spesse volte dovuto all’esacerbarsi dei media. Khosravi descrive le caratteristiche distintive di una sub-categoria sociologica, nonché la condizione giuridica di “profugo”. Il termine “profughizzazione”, ad esempio, indica tutte quelle pratiche, non solo discorsive, ma l’intera tendenza ad universalizzare il profugo a un “tipo” specifico di persona. Questa pratica linguistica e sociologica trova i suoi riscontri anche nelle pratiche legali e negli “stratagemmi” utilizzati per dare credibilità a una storia che non necessiterebbe di ulteriori spiegazioni. Un profugo deve apparire in un certo modo, vestito in un certo modo, deve assumere determinati comportamenti, deve trasudare sofferenza e dolore; deve essere “altro” da noi, ed è una visione talmente instillata che viene utilizzata come pratica normale, accettata.
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