Africano, immigrato, celerino. Il travaglio del “Legionario” di Papou

Daniel, italiano di seconda generazione, fa l'agente di polizia nei reparti della Mobile, parte di una squadra di celerini spesso chiamata a eseguire sgomberi di immobili occupati a Roma. La squadra è per lui una famiglia, nonostante la cameratesca integrazione al suo interno porti sempre un asterisco di fondo per l'unico poliziotto di colore del reparto. Daniel ha però anche una famiglia vera che cerca di tenere nascosta ai colleghi, una madre e un fratello che vivono in un palazzo occupato da sempre sotto minaccia di sgombero. Patrick, fratello pieno di rancore a causa del lavoro di Daniel, è tra i più attivi nel comitato degli occupanti, e le due vite non potranno essere tenute separate ancora a lungo. Esordio di un giovane regista nato in Bielorussia e cresciuto in Italia, Il legionario usa il cinema di genere come grimaldello per l'analisi sociale, e si espande a lungometraggio a partire da un corto che lo stesso Hleb Papou aveva realizzato nel 2016. Pur senza elevarsi tecnicamente e drammaturgicamente molto al di sopra delle aspettative di un debutto alla regia, è però un film dotato di uno sguardo, per di più puntato dritto su un angolo cieco della nostra società. Due sono i filoni che si intrecciano nel film. Da una parte il ritratto collettivo di una comunità di abitanti - molti tra loro immigrati - che prova a gestire un palazzo tra mille difficoltà e al tempo stesso sensibilizzare tanto l'opinione pubblica quanto le autorità alla loro causa. Dall'altra lo spaccato macho e intollerante di vita nella Celere, che già era stato il tema di ACAB per la regia di Stefano Sollima. Proprio a un certo cinema di Sollima, dalle musiche alla fotografia, sembra rifarsi Papou nel dare vita a una Roma dura e operaia, minacciosa e tagliente. Formalmente il lavoro riesce a metà, peccando nella fluidità delle scene d'azione e nel livello recitativo generale. Ciò non toglie che il protagonista Germano Gentile sia una presenza dal fascino criptico, che lascia entrare lo spettatore nella sua sfera emotiva complessa ma lo costringe anche chiedersi in quale gesto essa si manifesterà. Papou compensa però le comprensibili mancanze con qualcosa di più importante, ovvero uno sguardo da outsider, in controcampo, che illumina le convenzioni trite su cui inevitabilmente si adagia un cinema sempre uguale a se stesso.
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